1/L’ inizio dell’attività lavorativa autonoma nel ‘’panorama italiano ‘’ e il suo svolgimento nel tempo.

(di Claudia Radi, prima parte – già pubblicata il 24.09.2022 -; tutti i diritti riservati.)

Nel corso della mia attività professionale, mi è capitato di accettare incarichi da nuovi clienti ‘’ex lavoratori dipendenti’’ che, con l’apertura della partita iva, intendevano svolgere la propria attività lavorativa ‘’in autonomia’’.

In via preliminare verificai che la loro scelta non fosse un ‘’ripiego’’ dovuto all’impossibilità di trovare un nuovo lavoro dipendente…

Una volta constatato che così non fosse, accettai l’incarico.

Ovviamente l’approccio con questa nuova dimensione lavorativa fu per loro difficile.

Non mera esecuzione di ordini e percezione di una retribuzione prestabilita come nella precedente esperienza di lavoro, ma realizzazione di azioni frutto della loro libera autodeterminazione, supportate esclusivamente dalla propria preparazione e lungimiranza.

Il rapporto di lavoro dipendente, infatti, si caratterizza per la ‘’subordinazione’’ e cioè per prestazioni lavorative fornite a fronte di un corrispettivo prestabilito, svolte seguendo le direttive impartite dal datore di lavoro presso il quale si è assunti – vedi articolo 2094 del codice civile-, anche con l’assoggettamento al suo potere disciplinare – art.2104, art.2105 e 2106 del c.c. e L.300 del 1970 ”Statuto dei lavoratori”-.

Per suggellare l’esodo dalla ‘’precedente dimensione lavorativa’’ quindi, i neo-lavoratori autonomi (o piccoli imprenditori) in poco tempo dovettero essere in grado di:

  1. definire in quale spazio svolgere la loro attività e gestirlo;
  2. capire le caratteristiche del regime fiscale scelto (il più adatto e conveniente per loro tra quelli disponibili) per operare conformemente alle regole previste;
  3. considerare l’ammontare – da calcolarsi in percentuale sull’utile e cioè sulla differenza tra i ricavi conseguiti e i costi sostenuti fiscalmente deducibili, ottenuto nell’anno solare – delle imposte e dei contributi previdenziali dovuti e le scadenze entro le quali pagarli;
  4. creare e gestire nel tempo, un archivio documentale riferito alla loro attività;
  5. valutare e scegliere gli investimenti iniziali necessari (mobili, computer, piccoli macchinari, ecc.)
  6. quantificare i costi da sostenere per svolgere l’attività (iniziali e nel tempo) ed eventualmente procurarsi la finanza necessaria per sostenerli chiedendo prestiti e/o accendendo mutui;
  7. acquisire la consapevolezza dell’implicito (così detto…) ‘’rischio d’impresa’’ o di ‘’lavoro autonomo’’ e di conseguenza essere anche in grado di conoscere tempestivamente l’andamento del loro mercato di riferimento;
  8. approcciare (come e dove) con i potenziali clienti;
  9. redigere dei preventivi;
  10. fronteggiare la concorrenza;
  11. varie ed eventuali.

In tutto questo procedere il commercialista diventa il ‘’migliore amico ’’ al quale fare riferimento e nel quale riporre la fiducia, per essere consigliato e nell’eventualità delegato ad agire in sua vece per soddisfare l’esigenza di alcune delle voci sopra elencate.

Il commercialista quindi, in questo caso, non è più solo colui che si occupa della ‘’contabilità e delle dichiarazioni’’ fiscali, non è più solo colui che comunica gli importi da pagare e invia i modelli F24 (o assume l’incarico di inviarli telematicamente in pagamento sul conto corrente del cliente).

Certo, spesso saranno i collaboratori di fiducia del professionista a subentrare in questo rapporto ‘’sinergico’’ con il cliente, ma non ci dimentichiamo che comunque è sempre lui ad essere anche il punto di riferimento del suo collaboratore!

Quella sopra delineata è la sintetica panoramica di quello che succede in Italia nel momento in cui si decide di intraprendere un’attività di lavoro autonomo (o imprenditoriale che sia…).

Quali sono i soggetti coinvolti?

Il lavoratore autonomo (o piccolo imprenditore), la clientela, il mercato economico di riferimento, il commercialista, il fisco italiano, le banche.

Quali sono gli oggetti da prendere in considerazione nella dinamica sopra delineata?

La leadership, il lavoro, i corrispettivi per le prestazioni lavorative rese, la congrua remunerazione del lavoro al netto dei costi, imposte e tasse, contributi, interessi e commissioni bancarie.

E gli obbiettivi?

La realizzazione personale, il conseguimento di introiti economici che giustifichino il grosso impegno necessario e il sacrificio sopportato per la gestione di un’attività di lavoro autonomo (o imprenditoriale), la creazione di una squadra di lavoro che consenta la crescita e lo sviluppo del progetto imprenditoriale o autonomo che sia.

Una volta terminata la fase iniziale (più o meno dopo un anno e mezzo dall’apertura della partita iva), si procede nella direzione del potenziamento e/o crescita dell’attività (e quindi anche dell’eventuale assunzione di personale dipendente).

Il potenziamento e la crescita dell’attività di lavoro autonomo (o imprenditoriale che sia) sono le conseguenze inevitabili del corretto svolgimento delle azioni iniziali poste in essere (dove si è lavorato con l’obbiettivo di raggiungere il così detto ‘’break even point’’ e cioè il punto di equilibrio tra i costi e ricavi).

Se l’attività non fosse in costante divenire, infatti, non sarebbe possibile recuperare neppure gli investimenti iniziali…

Che cosa succede se, nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa, uno degli elementi dell’ingranaggio di cui sopra si ‘’inceppa’’?

Sono i ‘’soggetti’’ così come gli ‘’oggetti’’ coinvolti nell’attività di lavoro autonomo del cliente, evidentemente, a determinare l’andamento vincente o fallimentare del progetto lavorativo autonomo (o imprenditoriale)!

Nel progetto lavorativo autonomo (o imprenditoriale), infatti, non esiste rassicurazione alcuna sulla stabilità e immutabilità di tutte le condizioni inizialmente previste.

Per quale motivo allora, solo alcuni dovrebbero sostenere l’economia italiana assumendo sulle loro spalle questo rischio ‘’estremo’’ senza alcuna ‘’rete di protezione’’?

Eppure, le piccole attività autonome/imprenditoriali sono fondamentali per l’economia di uno Stato: impossibile pensare ad una società nella quale esistano solo lavoratori dipendenti.

Per quale motivo, quindi, non è prevista una regolamentazione ‘’stabile’’ di forme ‘’assistenziali’’ alle quali il lavoratore autonomo/piccolo imprenditore possa fare riferimento in caso di necessità?

Il lavoratore autonomo/piccolo imprenditore è un essere ‘’bionico’’?

Evidentemente no: ci si avvicina molto ma non lo è.

Forse è troppo tardi per risollevare le sorti della maggior parte delle persone dotate di iniziativa autonoma/imprenditoriale presenti in questo paese.

Oggi molte aziende stanno sospendendo le loro attività e i contratti di lavoro dei loro dipendenti ricorrendo alla cassa integrazione, per il ‘’dulcis in fundo’’ del caro energia: il peso economico di tutto questo ricadrà nelle spalle dello Stato (del quale ovviamente siamo parte e finanziatori) ‘’cicala’’, già pesantemente indebitato e completamente carente di una adeguata progettualità e programmazione.

Strutturare organicamente la risposta dello Stato a questo tipo di problemi, inserendo piani programmatici di sviluppo che ci guidino ‘’progettualmente’’ nel futuro (possibile e auspicabile…), era ed è indispensabile e conveniente per tutti (oltre ad evitare il degrado di una società nella quale la disperazione lascia spazio alle infiltrazioni speculative di tipo mafioso).

Se in passato tutto questo non è stato fatto (nonostante gli innumerevoli segnali di pericolo), trovo altamente improbabile che si verifichi in un momento di emergenza come questo.

Più probabile la somministrazione di cure palliative, momentanee e ad incremento del debito pubblico nel bilancio del nostro Stato.

Per mia natura sono sempre stata attiva e propositiva e la scelta di lavorare per trent’anni per piccole aziende, imprenditori, lavoratori autonomi, professionisti, società, in qualità di professionista ordinistica (lavoratrice autonoma iscritta in un ordine professionale), non è certo casuale.

Sono consapevole delle maggiori responsabilità e dei maggiori rischi che ho assunto nel momento in cui ho deciso di intraprendere la ‘’libera professione’’.

Tuttavia, mi aspetto che le condizioni per le quali ho accettato in via preliminare questo rapporto con la società non mutino, che mi sia sempre consentito di esprimere la mia capacità lavorativa assumendo nuovi incarichi e ricevendo una congrua remunerazione (al netto dei costi) per questo.

Non credo di essere l’unica ad aspettarsi ‘’il rispetto delle condizioni dell’implicito patto sociale precedentemente stabilito’’…

Riepilogando e per concludere, ritengo che in Italia sia necessario ripristinare (o istituire ex novo…) un’equità nei vari ‘’patti sociali’’ precedentemente e implicitamente raggiunti (troppe le evidenti disuguaglianze di trattamento a parità di impegno, preparazione e capacità lavorativa) con il nostro Stato, incentivando ‘’in modo strutturale’’ lo svolgimento delle attività di lavoro autonomo, imprenditoriale e artigianale di piccole dimensioni, che attualmente non sono più sostenibili (i costi certi da sostenere sono nettamente superiori ai ricavi incerti conseguibili!).

I motivi?

Sono di diverso tipo.

In primo luogo, risponderei: perché la gente vuole e ha bisogno di lavorare, possibilmente assicurando lo stesso livello di qualità ‘’precrisi economica’’, ‘’ pre-pandemia’’, ‘’precrisi energetica’’, del servizio da prestare.

In secondo luogo, perché sono realtà caratterizzanti da sempre l’economia italiana, in quanto palesemente più adatte alla ridotta dimensione della nostra ‘’superficie’’ ed ‘’economia’’, ma soprattutto (e di fondamentale importanza) perché nel tempo possono continuare a perpetuare le uniche cose che tutto il mondo ci riconosce da sempre (tra ammirazione, invidia e tentativo di imitazione): la genialità e l’estro italiano, le nostre vere prerogative da tutelare.

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