(già pubblicato sul precedente blog, il 22.12.2022)
‘’Mamma mi sono fatta male!!”
‘’Fammi vedere? Ma no, non ti preoccupare, non è niente..”
E così siamo stati rassicurati, fin da piccoli, attraverso un’operazione di ‘’banalizzazione dei problemi’’.
La sbucciatura di un ginocchio senz’altro merita di essere banalizzata, se non altro per insegnarci le giuste proporzioni delle nostre reazioni.
Un piccolo problema infatti, non richiede una reazione eccessiva, un grosso investimento emozionale (paura, terrore) che si possa poi tradurre in una spinta a reagire.
Un grande problema, al contrario, richiede tutta la nostra attenzione e molte volte è necessario l’intervento di altre persone per aiutarci ad affrontarlo e risolverlo.
Come si fa a distinguere un piccolo problema da un grande problema?
Sembra una domanda ‘’banale’’ alla quale si possa rispondere con una risposta scontata, ma se ci pensate bene non è così.
Non è scontato riuscire a capire la gravità di un problema.
E allora è necessario almeno soffermarsi a riflettere su quali siano gli elementi da prendere in considerazione per valutarlo, compatibilmente con il tempo a nostra disposizione (molto spesso i problemi si presentano inaspettatamente e nella maggior parte dei casi richiedono una tempestiva reazione).
Un indicatore della portata del problema potrebbe essere quello legato all’intensità del dolore provato (che sia di tipo fisico oppure emozionale).
Eppure, il livello di sopportazione del dolore non è per tutti lo stesso.
Di conseguenza una persona che abbia una maggior capacità di sopportare il dolore si lamenterà di meno rispetto a quella che comincerà a piangere o strillare; questo non vuol dire che il dolore non sia, per entrambi, della medesima portata e quindi un problema resta più o meno grave indipendentemente dalla capacità di sopportazione del dolore che ne deriva.
Nel caso del dolore emozionale/spirituale (non legato quindi, ad una patologia) ad esempio, una persona abituata a nascondere le proprie emozioni, le vivrà interiorizzandole in una ‘’dimensione parallela’’ che inevitabilmente avrà creato per sopravvivere (impossibile, infatti, vivere in modo equilibrato se non si è in grado di manifestare tristezza, sofferenza, gioia, amore), fin tanto che, ovviamente, questa dinamica le sarà tollerabile.
Dopodiché, inevitabilmente, queste sfoceranno ‘’malamente’’ all’esterno in un evento imprevisto, nel quale sarà manifesto quello stato d’animo per molto tempo nascosto determinando, nella maggior parte dei casi, azioni incomprensibili agli osservatori esterni.
Sto parlando del classico caso di un problema ignorato, banalizzato, nascosto, che all’improvviso si concretizza manifestandosi all’esterno.
Perché le persone non sono capaci di riconoscere e vivere serenamente le proprie emozioni?
Forse sarebbe più opportuno interrogarsi in un modo diverso: perché le persone non vengono educate a riconoscere e vivere serenamente le proprie emozioni?
Emozioni!!
Ricordiamole: gioia, tristezza, rabbia, sorpresa, paura, disgusto e disprezzo.
Riconoscerle ‘’riflettendole’’, costituisce il primo passo verso l’accettazione e la conoscenza di sé stessi (non siamo nati per assomigliare a qualcun altro che nella maggior parte dei casi proietta su di noi l’incompletezza della sua esistenza).
Ma torniamo a parlare della ‘’banalizzazione dei problemi’’.
Oltre alle due tipologie sopra esposte (problema fisico – il più delle volte causato da una malattia- e il problema emozionale/spirituale) esistono problemi di tipo quotidiano risolvibili con azioni adeguate.
Ad esempio: ‘’Ho fame!’’
Questo è senz’altro un problema quotidiano comune a tutti.
Personalmente, in questo caso, l’azione che realizzo è quella di aprire la dispensa e mangiare un pacchetto di cracker oppure, se ho molta fame, prendere qualche cosa dal frigorifero e cucinarla (sempre ammesso che non si tratti di venerdì – la spesa la faccio di sabato…- e allora le scelte a mia disposizione saranno scarsissime).
Non ho personale domestico e quindi, sicuramente, risolvere il problema della fame mi richiede qualche fatica in più rispetto a chi, invece, ne ha.
Inoltre ho a disposizione dei soldi per fare la spesa e questo mi rende meno grave il problema quotidiano del mangiare, rispetto a coloro che non ne hanno.
Insomma, credo di aver dato il giusto senso a quello che sto cercando di dire:
- esistono problemi risolvibili facilmente;
- esistono problemi risolvibili con un po’ di fatica;
- esistono problemi risolvibili con molta fatica;
- esistono problemi risolvibili, che per mancanza di mezzi diventano irrisolvibili.
E a questo punto forse ci sta bene inserire lo strumento ‘’dell’indicizzazione del problema’’ (una mia creazione..)!
- a) problema risolvibile, facile;
- b) problema mediamente difficile da risolvere;
- c) problema di difficile soluzione;
- d) problema inizialmente risolvibile divenuto nel tempo impossibile da risolvere.
Lo strumento ‘’dell’indicizzazione del problema’’ per essere funzionale all’utilizzo per il quale è stato creato, ha bisogno di una collocazione temporale; è ovvio, infatti, che un problema non risolto al momento del suo insorgere, nel tempo possa peggiorare e arrivare ad essere irrisolvibile.
Inoltre, anche se momentaneamente può non essere visibile, l’esistenza di un problema è ineluttabile e molto spesso sarebbe sufficiente applicare semplicemente le leggi della logica per arrivare ad averne coscienza.
Un po’ come per ‘’ il principio di non contraddizione’’ di Aristotele, il quale afferma che: ‘’è impossibile che la stessa cosa sia e non sia’’, ‘’che è impossibile che ad un essere convenga e insieme non convenga la stessa determinazione’’.
Quindi ‘’è impossibile che il problema di oggi sia e non sia’’; se oggi ho un problema di tipo a) è impossibile che io oggi non abbia un problema di tipo a).
Se domani il problema di tipo a) dovesse diventare di tipo b), sarà impossibile che io domani non abbia un problema di tipo b).
Inoltre, se oggi ho un problema di tipo a) e non mi attivo per risolverlo ‘’riuscendoci’’, domani il problema sicuramente diventerebbe di tipo b) e, nel tempo, raggiungere i livelli più alti dell’escalation di tipo c) e d)).
Dicevo quindi, che un approccio di tipo logico aiuterebbe a prendere coscienza dei problemi, ed indurrebbe ad attivarsi immediatamente per risolvere il problema di tipo a) prima che diventi di tipo b) c) o d).
Ma può succedere di non riuscire ad evitare l’escalation del problema…
Ci si può attivare per tempo per risolverlo evitando di creare altri problemi (che nella maggior parte dei casi si riverserebbero anche sugli altri); ci si può illudere di essere riusciti a risolverlo facendo leva solo sulle proprie forze e invece ci troviamo improvvisamente di fronte ad un problema di tipo più grande causato dagli strascichi del problema iniziale che abbiamo banalizzato illudendoci di averlo risolto.
E se ancora solo con le nostre forze riusciamo a superare questi nuovi ostacoli, sempre senza dare fastidio a nessuno, utilizzando tutti gli strumenti democratici a nostra disposizione e nonostante questo ci troviamo improvvisamente difronte ad un problema di tipo d)?
Allora vuol dire che non è possibile banalizzare nessun problema e nessuna azione esterna che intervenga/non intervenga, per farti/non farti risolvere il problema.
Vuol dire anche che quel problema di tipo d) non è stato determinato dalla mancanza di una risposta adeguata al problema di tipo a) mirata a risolverlo prima che divenisse tale, ma scaturisce da una concatenazione di eventi ineluttabili il più delle volte divenuti tali per il bene placido degli spettatori ‘’presenti/assenti ’’.
Sto parlando dei c.d. ‘’titolari di privilegi’’ e cioè di coloro che non perseguendo più il valore dell’attuazione della giustizia, confluiscono le loro energie solo verso il loro perpetuarli, circondati da una fitta schiera di vassalli accondiscendenti non meno responsabili dell’azione di ritorsione a quella di ‘’risoluzione dei problemi’’, messa in atto da coloro che, con coscienza, si attivano per cercare di risolverli indipendentemente dagli ostacoli che incontreranno.
(Di Claudia Radi, tutti i diritti riservati)
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