3/Divagazioni personali: il principio di non contraddizione.

Certo, sono d’accordo, è diventato veramente difficile disquisire su ‘’che cosa sia reale (vero) e che cosa non lo sia (non vero) ’’.

Disquisire sulla realtà, infatti, include la premessa di un linguaggio appropriato comprensibile a tutte le parti coinvolte nella comunicazione.

Un linguaggio appropriato non solo da un punto di vista grammaticale e di sintassi, ma soprattutto con riferimento ai contenuti sui quali si disquisisce.

Appropriato quindi alla lingua parlata dalle parti coinvolte, al luogo, al tempo e ai principi primi condivisi!

Non condividendo le premesse di base (che in questa sede equiparerei ai ‘’principi primi’’ di Aristotele, indimostrabili, autoevidenti e innegabili), infatti, la realtà assume connotazioni diverse soprattutto perché: non “riflettuta’’ dalla coscienza (cassa di risonanza empirica – non è una parolaccia…- del nostro esistere).

Per questo motivo ritengo che la realtà debba essere oggetto di riflessione e non sia sufficiente la mera osservazione per poterne disquisire.

La nostra coscienza, quindi, assume il ruolo agente imprescindibile per una corretta visione della realtà.

Ma corretta per chi?

Per tutti, è ovvio.

Altre visioni individuali non riflettibili non potrebbero superare il confronto con le verità inconfutabili dei principi primi autoevidenti, indimostrabili e innegabili; di conseguenza le considero un attentato alla sopravvivenza della specie umana!

Eppure, si sa, la melassa della finzione e dell’ipocrisia appiccica tra loro i neuroni stanchi di riflessioni, alla ricerca di evasioni (vuote, prive di contenuti reali) spicciole, che coinvolgano solo la superfice, mentre tutto il resto rimane incollato sul fondo.

Il problema quindi, si riduce a quello di non riuscire più a percepire come vere: condizioni di vita umane, divenute astratte per il peso quotidiano di una realtà prevalentemente meccanica e frutto di automatismi che, ignorandole in quanto divenute irrealizzabili, di fatto le schiaccia annientando la loro verità ontologica!

Le condizioni di vita umane hanno perso il loro valore, la loro verità, la loro realtà, perché non esistono più.

Con loro sono spariti altri sentimenti umani, primo fra tutti quello della fiducia.

Il sentire poetico si riduce alle poche fonti di ispirazione rimaste delle quali può nutrirsi l’anima: il perimetro nel quale la bellezza può manifestarsi si sta irrimediabilmente riducendo insieme ai ghiacciai in alta montagna.

La conseguenza inevitabile di tutto questo è quella di ignorarci reciprocamente, in questa dissonanza con l’altro da sé, causata dall’assenza del nostro sé.

Devo dire che, nonostante l’amarezza per aver dovuto abbandonare i miei studi universitari in filosofia (lezioni, per altro, seguite nella splendida cornice di Villa Mirafiori in via nomentana a Roma all’inizio degli anni ’90), la gioia di aver potuto acquisire qualche pillola di rara saggezza seguendo il corso di Antropologia culturale del Prof. Cirese nel suo ultimo anno di insegnamento, il corso di Filosofia della storia con la Prof.ssa D’Abbiero e la presentazione della mia prima tesina su Nietzsche, quello di Propedeutica filosofica con l’approccio allo studio di Platone e della sua opera prima ‘’La Repubblica’’, il corso di Storia della filosofia moderna e contemporanea con Kant ed Hegel protagonisti, nonché i seminari pomeridiani sul Confucianesimo, Induismo, Taoismo, Buddismo, è immensa e mi ha consentito una svolta interpretativa dei fatti della vita.

Inoltre, è solo grazie a queste basi accademiche che sono riuscita a confrontarmi con la lettura di altri testi filosofici e psicologici e, dopo trent’anni di appassionata e amatoriale ricerca (e studio), mi posso permettere la lettura di un ‘’volumetto’’ che si colloca nell’ambito della filosofia teoretica, niente di meno!

E veniamo al ‘’volumetto’’…

Per la seconda volta nella mia vita (la prima con la lettura del ‘’Discorso sul metodo’’ di Cartesio) mi sono trovata a tu per tu con uno dei geni vissuti nel passato.

Ritengo che la fiducia con cui approcciano alla loro visione sia la vera chiave di svolta per raggiungere quelle illuminazioni primordiali.

Le complicazioni intervengono per spiegare, a chi semplice non è, intuizioni vere in quanto tali, ma solo per chi le ha avute e vissute.

Come si fa a trasferire la verità di un’intuizione?

Ritengo razionalizzandola e quindi codificandola per le menti eccelse che in questo modo possono comprenderla anche se non l’hanno avuta e non l’hanno vissuta (come fa magistralmente il prof. Emanuele Severino nel libro, nelle note esplicative delle affermazioni di Aristotele- ammesso che anche lui non le abbia avute, vista la chiarezza con cui le illustra…-).

Comprendere razionalmente un’intuizione equivale a sapere cosa significa avere un’intuizione?

L’intuizione, infatti, non si raggiunge attraverso la razionalità, e questo è un fatto (assolutamente un principio primo, indimostrabile, autoevidente e innegabile).

Ma come si raggiunge quell’intuizione senza la quale le scoperte perdono la loro connotazione umana?

Lo sappiamo? Lo abbiamo scoperto?

L’intuizione è una capacità che appartiene solo a coloro che, per questo, definiamo geni?

E come si può credere in un’intuizione se non c’è più fiducia?

Ma le intuizioni esistono ancora?

Definizione di intuizione tratta dal vocabolario Treccani on line:

‘’ s. f. [dal lat. tardo intuitio –onis; v. intuire]. – 1. Conoscenza diretta e immediata di una verità, che si manifesta allo spirito senza bisogno di ricorrere al ragionamento, considerata talora come forma privilegiata di conoscenza che consente, superando gli schemi dell’intelletto, una più vera e profonda comprensione (e, a volte, creazione) dell’oggetto: l’idel benedel maledel bellol’idi Diol’idei primi principîl’iestetica; nella filosofia kantiana, i. sensibile, percezione passiva, ma immediata, dell’oggetto da parte di un essere finito, in contrapp. all’iintellettuale, propria di Dio, creatrice dell’oggetto stesso. (…) ’’

Chi era Aristotele?

Un uomo nato nel 384 a.C. a Stagira (colonia ionica nella penisola Calcidica). Suo padre, Nicomaco, era medico e amico del re di Macedonia; probabilmente fu lui stesso a insegnargli le prime nozioni di medicina e biologia; certamente ispirò il figlio, fin dagli anni della prima giovinezza, quell’atteggiamento filomacedone cui Aristotele rimarrà fedele per tutta la vita. A diciassette anni entrò nell’Accademia e vi rimase fino alla morte di Platone -cioè, circa un ventennio-(tratto da ‘Storia del pensiero filosofico e scientifico’, vol.1, Ludovico Geymonat, Garzanti editore).

Buone riflessioni anche a voi.

Claudia Radi (.blog)

(autrice Claudia Radi copyright 2023)

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